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La musica nella cultura greca e romana

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La musica antica, greca e romana, pone problemi ben diversi da quelli che si presentano agli studiosi della musica di altre epoche: infatti non conosciamo nulla o quasi delle composizioni che furono prodotte e eseguite in quel periodo. Non possediamo neppure una nota di tutto ciò che è stato composto prima del III secolo a.C. e i pochissimi testi musicali di età ellenistica e romana che ci sono pervenuti non forniscono indicazioni precise e esaurienti per la loro esiguità e il deplorevole stato di conservazione. Dal 1850 in poi il nostro patrimonio di testi musicali si è relativamente arricchito per la scoperta di tre iscrizioni - i due Inni delfici, il primo anonimo del 138 a.C. e il secondo, di Limenio, del 128 a.C., e l’epitafio di Sicilo, del I secolo - e di una quindicina di brevi frammenti papiracei, il più antico dei quali è del III secolo a.C. e contiene alcuni versi dell’Ifigenia in Aulide di Euripide. Queste composizioni, prese insieme, non arrivano all’estensione di una sonata di Bach per violino solo; per di più sono quasi tutte molto frammentarie e la loro interpretazione e trascrizione è spesso problematica.

Scarse sono anche le indicazioni culturali che possiamo ricavare dalle opere dei teorici greci e romani, in quanto essi considerarono il fenomeno musicale quasi esclusivamente dal punto di vista dell’indagine acustica e matematica. Si occuparono soprattutto della dottrina degli intervalli, calcolandone l’ampiezza in base a rapporti numerici e analizzando i vari modi in cui gli intervalli stessi possono disporsi all’interno dei tetracordi ( schemi musicali elementari, formati dalla successione di quattro note, che per la musica greca hanno la stessa funzione delle scale di ottava per la nostra musica) e dei sistemi (strutture più ampie, formate da due o più tetracordi). Nei loro scritti non si trova mai né un riferimento a una composizione musicale qualsiasi né una indicazione circostanziata sulla tecnica compositiva e esecutiva.

E’ invece considerevole l’ampiezza della documentazione, reperibile in tutta la tradizione letteraria, filosofica e artistica, pertinente all’incidenza del fenomeno musicale nella cultura antica e ai suoi aspetti sociologici.

Contenuti:
La musica in Grecia: diffusione e trasmissione
La musica in Grecia: composizione e sistema musicale
La musica nella civiltà romana
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La musica in Grecia: diffusione e trasmissione

Il termine greco da cui è derivato il nome stesso di musica, mousichè (sc. techne, l’arte delle Muse) definiva, ancora nel V secolo a.C., non solo l’arte dei suoni, ma anche la poesia e la danza, cioè i mezzi di trasmissione di una cultura che fino al IV secolo a.C. fu essenzialmente orale, una cultura che si manifestava e si diffondeva attraverso pubbliche esecuzioni nelle quali non solo la parola, ma anche la melodia e il gesto avevano una loro funzione determinante. Il compositore di canti per le occasioni di festa, il poeta che cantava nei conviti, l’autore di opere drammatiche erano i portatori di un messaggio proposto al pubblico in una forma allettante e quindi persuasiva proprio attraverso gli strumenti tecnici della poesia, quali le risorse del linguaggio figurato e traslato e l’armonia dei metri e delle melodie che ne favorivano l’ascolto e la memorizzazione: non è casuale che nel V e nel IV secolo a.C. mousikòs anèr designasse l’uomo colto, in grado di recepire il messaggio poetico nella sua completezza.

L’unità di poesia, melodia e azione gestuale che si manifestò nella cultura arcaica e classica condizionò l’espressione ritmico - melodica alle esigenze del testo verbale. Ma la compresenza dell’elemento musicale e orchestico accanto all’elemento testuale in quasi tutte le forme della comunicazione è anche la prova della diffusione generalizzata di una specifica cultura musicale nel popolo greco fin dai tempi più remoti.

L’arte figurativa testimonia una intensa attività musicale già nel secondo millennio a.C.: suonatori di strumenti a corda e a fiato sono raffigurati in statuette del XIX - XVIII sec. a.C. ritrovate a Keros e a Thera e rappresentazioni di citaristi e di auleti compaiono anche in affreschi cretesi.

Ma per una valutazione del ruolo che la musica rivestì nell’ambito della società greca già in età micenea ancor più significative sono le testimonianze letterarie. Nell’Iliade i rappresentanti degli Achei sono inviati al santuario di Apollo a Crisa, sulla costa dell’Asia minore, per far cessare la pestilenza che aveva colpito il loro esercito sotto le mura di Troia: dopo aver restituito la figlia al sacerdote Crise e dopo aver compiuto il sacrificio espiatorio, placano l’ira del dio intonando in coro il peana (Il. I 472 sgg.). Anche Achille canta accompagnandosi con la phorminx, lo strumento a corda degli aedi, per alleviare la pena del suo animo (Il. IX 185 sgg.). Nelle scene di vita agreste e cittadina raffigurate da Efesto sullo scudo di Achille, suonatori e cantori accompagnano le cerimonie nuziali, il lavoro dei campi, le danze dei giovani (Il. XVIII 490 sgg.) . Nell’Odissea hanno un notevole rilievo le figure dei citaredi Femio di Itaca e Demodoco di Corcira: sono veri e propri artigiani del canto, la cui opera è indispensabile perché i banchetti siano degni della nobiltà dei convitati o per accompagnare le danze atletiche durante la festa popolare dei Feaci. Essi hanno un repertorio di canti ampio e collaudato, che i loro abituali ascoltatori conoscono e apprezzano (Od. I 377 sgg; VII 487 sgg.): sono onorati come depositari del sacro dono delle Muse, l’ispirazione, e come artefici capaci di esporre con proprietà e efficacia gli argomenti che le dee stesse suggeriscono.

Se numerosi e interessanti sono gli accenni all’attività musicale già nei poemi omerici, ben più intensa e articolata si rivela, dalle testimonianze letterarie, la vita musicale nelle epoche successive: tutti i testi lirici greci, arcaici e classici, furono composti per essere cantati in pubblico con l’accompagnamento strumentale, e nelle rappresentazioni drammatiche il canto corale e solistico ebbe nel periodo classico un’importanza almeno pari a quella del dialogo e dell’azione scenica. La musica fu presente in tutti i momenti della vita associata del popolo greco, nelle cerimonie religiose, nelle gare agonali, nei simposi, nelle feste solenni, perfino nelle contese politiche, come testimoniano i canti di Alceo e di Timocreonte di Rodi.

Dai racconti mitologici - Orfeo che con il canto ammansisce le fiere e convince gli dei dell’Ade a restituire alla luce la sua Euridice, Anfione e Zeto che innalzano le mura di Tebe muovendo i sassi con il suono della cetra, per citare solo due esempi - e dalle testimonianze letterarie, a partire dallo stesso Omero, possiamo renderci conto della funzione primaria che il canto e il suono degli strumenti ebbero anche nei rituali di carattere iniziatico, propiziatorio, apotropaico e medico. Alla musica i Greci attribuivano del resto anche potere psicagogico, come testimoniato dalle teorie pitagoriche.

La diffusione e la trasmissione dei testi avvenivano attraverso l’ascolto e la memorizzazione: anche quando i poeti non improvvisarono più ma scrissero le loro opere, esse continuarono a essere conosciute dal pubblico soprattutto attraverso la performance orale. Esistono motivi validi per affermare che la musica greca non fu mai scritta prima del IV secolo a.C. e che anche in seguito la scrittura musicale servì solo ai musici professionisti per annotazioni sui copioni a loro esclusivo uso.

I Greci, come del resto i Romani, ignorarono del tutto l’armonia, nell’accezione moderna del termine, e la polifonia; la loro musica si espresse esclusivamente attraverso la pura melodia. L’accompagnamento seguiva fedelmente lo sviluppo della linea del canto, o all’unisono o a intervallo di ottava; soltanto dopo il IV secolo a.C. si ha notizia di canti accompagnati a intervallo di quarta o di quinta. Una musica semplice e lineare, che almeno fino agli ultimi decenni del V secolo ebbe soprattutto la funzione di connotare il testo in rapporto al genere poetico, alla destinazione e all’occasione della performance. Il canto poteva essere accompagnato dalla lira (strumento a pizzico, in genere con sette corde) e in questo caso veniva detto citarodia o dall’aulos, una specie di flauto dolce, e in questo caso prendeva il nome di aulodia.

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La musica in Grecia : composizione e sistema musicale

Per quanto riguarda la composizione, sappiamo che essa si mantenne fedele a moduli tradizionali fino alla fine del V secolo a.C.: questa fedeltà dovette necessariamente significare la ripetizione continua di schemi strutturali e melodici che costituivano gli elementi caratterizzanti dei particolari generi di canto. Platone (Leg. III 700a sgg.) ricorda che in passato i diversi generi musicali erano ben distinti e ciascuno aveva il suo carattere specifico: la preghiera agli dei, l’inno, non si confondeva con il lamento funebre, con il peana, con il ditirambo, con il nomos; non era lecito al compositore attribuire a queste forme di canto una destinazione diversa da quella stabilita dalla tradizione. Per Platone, trasgredire questa norma comportava anche la dissoluzione dell’ordine politico e sociale. La composizione musicale in Grecia mantenne fino al IV sec. a.C. questi caratteri di improvvisazione - variazione secondo le esigenze del momento e nel contempo di ripetitività nell’ossequio della tradizione: dunque il compositore adeguava il canto all’occasione senza modificare gli elementi caratterizzanti del genere che non dovevano in alcun modo essere alterati.

Una svolta importante nell’ambito della cultura musicale greca si ebbe nel VI sec. a.C. In questo periodo si inquadra l’evoluzione del coro ditirambico (legato al culto dionisiaco) : i coreuti non eseguivano più la loro danza spostandosi secondo una linea retta, con gli stessi movimenti che caratterizzavano le danze processionali, ma disposti attorno all’altare del dio compivano le loro evoluzioni secondo una linea curva, prima in un senso (strofe), poi nell’altro, riprendendo lo stesso schema ritmico (antistrofe), e infine limitando il loro spostamento in un’area ristretta (epodo).

Dopo la metà del VI secolo, con l’istituzione dei concorsi ditirambici, il clima di contesa agonistica che si instaurò tra gli autori partecipanti dovette favorire l’attenuazione del carattere rituale - ripetitivo del canto ditirambico. Questo nuovo modo di intendere la fedeltà alla tradizione si trasmise presto anche agli altri generi lirici e musicali: al nomos, al canto rituale che per la sua stessa natura doveva rimanere sostanzialmente immutato nei suoi elementi melodici, si sostituì come struttura portante delle nuove composizioni l’harmonia . Il significato originario di questo termine era quello di "giuntura, connessione, adattamento", e quindi di "patto, convenzione"; in senso musicale il suo primo valore fu quello di "accordatura di uno strumento" e di conseguenza "disposizione degli intervalli all’interno della scala": ma il significato di harmonia nelle opere degli scrittori del VI - V secolo a.C. ebbe uno spazio semantico molto più esteso di quello di "scala modale" attribuitole dai teorici di età greca e romana. Harmonia indicava infatti un complesso di caratteri che concorrevano a individuare un certo tipo di discorso musicale: non solo una particolare disposizione degli intervalli, ma anche una determinata altezza dei suoni, un certo andamento melodico, il colore, l’intensità, il timbro che erano gli elementi distintivi della produzione musicale di uno stesso ambito geografico e culturale.

Il sistema musicale si fondava sui cosiddetti tetracordi, cioè su successioni di quattro suoni discendenti. A seconda dell’ampiezza degli intervalli che separavano tra di loro questi quattro suoni, si avevano vari tipi di tetracordo: quando la successione degli intervalli era di tono, tono e semitono, il tetracordo era detto dorico; quando la successione degli intervalli era di tono semitono, tono, il tetracordo era detto frigio; quando la successione degli intervalli era di semitono, tono, tono, il tetracordo era detto lidio. "Agganciando" assieme due tetracordi dello stesso tipo, si aveva una harmonia che prendeva anch’essa il nome di dorica, frigia, lidia. La prima aveva un carattere energico e severo, la seconda dolce e piacevole, la terza invece delicato e lamentoso.

Le harmoniai sono dotate ciascuna di un particolare ethos, ossia di uno specifico "carattere", in grado di agire emozionalmente in senso positivo o negativo sull’animo umano e pertanto di importanza fondamentale in ambito pedagogico. La dottrina di Damone, maestro e consigliere di Pericle, prende avvio dal principio fondamentale della psicologia pitagorica, che cioè vi sia una sostanziale identità tra le leggi che regolano i rapporti tra i suoni e quelle che regolano il comportamento dell’animo umano. La musica può incidere sul carattere, soprattutto quando esso è ancora plasmabile e malleabile per la giovane età (fr.7 Lasserre): è necessario individuare tra i vari tipi di melodie e di ritmi quelli che hanno il potere di educare alla virtù, alla saggezza e alla giustizia (fr.6 Lasserre). Nel definire e analizzare i generi delle harmoniai Damone afferma che solo la dorica e la frigia hanno una funzione paideutica positiva per il comportamento valoroso in guerra e saggio e moderato in pace (fr.8 Lasserre). In un passo della Repubblica (IV 424c) a Damone è attribuito anche un giudizio sul rapporto musica - società che sarà poi ripreso e sviluppato altrove dallo stesso Platone: non si deve mutare il modo di fare musica se non si vuole correre il rischio di sovvertire anche le istituzioni e le leggi dello stato. La classificazione sistematica delle harmoniai secondo criteri etici oltre che formali costituì la base della teorizzazione musicale posteriore, ellenistica e romana, orientata verso i problemi di matematica e etica musicale.

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La musica nella civiltà romana

Le considerazioni di ordine generale sull’importanza della musica nella vita sociale e culturale dei Greci conservano il loro valore anche se vengono riferite alla civiltà romana che nel periodo delle origini, per quanto riguarda i fenomeni musicali, presenta caratteri di sostanziale analogia con la grecità arcaica: anche a Roma, in un ambito di cultura orale, tutte le forme poetiche di cui ci è giunta notizia (poesia sacrale, canti conviviali, testi drammatici, canti trionfali, lamentazioni funebri) erano destinate all’esecuzione cantata con accompagnamento strumentale. Fra gli strumenti a corde si ritrova la lira e fra quelli a fiato la tibia, simile all’aulos. Tipicamente romani furono invece strumenti a fiato come il cornus e il lituus, entrambi di bronzo e usati in campo militare: proprio gli strumenti militari erano al centro della cerimonia del Tubilustrium , durante la quale erano "purificati" con riti e preghiere. I mutamenti più consistenti rispetto alla tradizione greca si registrarono in età imperiale, quando affluirono a Roma in gran numero cantanti, danzatori e strumentisti provenienti, oltre che dalla Grecia, anche da altre parti dell’Impero: dall’Egitto, dalla Siria, dalla Spagna. Questo fenomeno, che si verificò in concomitanza con la massiccia immigrazione di provinciali e schiavi che alterarono profondamente il carattere stesso della società urbana, determinò la formazione di un ambiente musicale molto composito per la compresenza di forme espressive così eterogenee. Una reazione a questo inquinamento della cultura musicale greco - romana può forse essere individuata nei tentativi di ridare lustro ai generi solistici di più antica tradizione, come la citarodia e la citaristica, da parte di alcuni imperatori che erano anche buoni dilettanti o perlomeno intenditori di musica (Nerone, Vespasiano, Adriano). Accanto alle manifestazioni della musica profana si affermarono in Roma anche le espressioni musicali collegate ai culti di divinità straniere: durante le cerimonie rituali in onore di Cibele si eseguivano melodie di origine frigia accompagnate dal suono degli élymoi, auloi di lunghezza diversa, uno dei quali terminava con un padiglione ricurvo all’indietro, e ritmate dai cimbali e dai timpani; gli stessi strumenti erano impiegati nei riti dionisiaci, i Bacchanalia. Il culto di Iside, che si diffuse soprattutto dopo la conquista dell’Egitto, del 31 a.C., fece conoscere ai Romani, oltre alle melodie e alle danze della valle del Nilo, anche il sistro, uno strumento formato da lamine metalliche che tintinnavano agitate dai sacerdoti.

Fu in questo ambiente culturale così vario e composito che si formò nel I-II secolo il primo nucleo dei canti cristiani.

I primi fedeli che costituirono la chiesa di Roma erano ebrei, e nella salmodia ebraica noi possiamo senz’altro individuare uno degli elementi fondamentali delle primitive espressioni musicali cristiane; tuttavia il canto liturgico si arricchì di motivi eterogenei, cui certamente non fu estranea la influenza della musica greco - romana. La contrapposizione ideologica tra cristiani e pagani condizionò tuttavia anche la musica del culto. Nel 313 Costantino concesse ai cristiani la libertà di culto e più tardi Teodosio fece del Cristianesimo la religione ufficiale dello Stato: per soddisfare l’esigenza di una partecipazione corale al rito, accanto alla salmodia solistica e al canto responsoriale, si introdusse nella liturgia cristiana anche il canto antifonale, eseguito da tutti i fedeli divisi in due semicori. Questi modi di esecuzione vocale costituirono i punti di partenza perla successiva evoluzione delle forme musicali del Medioevo: alla caduta dell’Impero d’Occidente, solo la musica della Chiesa si salvò dall’offuscamento e dalla scomparsa della tradizione musicale classica e fu in grado di fornire un contributo determinante alla formazione delle nuove culture musicali nazionali.

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